Dal mulino al ronfò a Montebruno il museo che coltiva la memoria
La fatica e l'impegno, la pazienza e l'operosità, i momenti più duri, come certi caratteri scolpiti nel legno, ma anche la gioia e il calore degli affetti. L'antica vita dei contadini, gente di montagna, dei boschi e dei campi, dei fabbri, dei falegnami, dei ciabattini e degli altri artigiani che popolavano i borghi delle vallate era scandita dai ritmi delle stagioni e dall'estrema sobrietà di ogni gesto e impegno quotidiano dall'alba al tramonto del sole. Così è stato per secoli, a contatto di una natura modellata - con rispetto sapiente - per le coltivazioni e i pascoli, lavorando la terra e i boschi con attrezzi e macchinari che oggi non esistono più. Per non perdere le radici, preziose e fondamentali, delle tradizioni, del cuore e dell'ingegno della società rurale, ben viva sino agli anni '50 del '900 e poi erosa dall'abbandono delle campagne negli anni della massiccia industrializzazione, a Montebruno in Val trebbia un museo, straordinario come vedremo, ne coltiva la memoria nel modo più bello: attraverso utensili, attrezzi, macchinari, ricostruzioni di ambienti di vita e lavoro di un tempo, ormai passato, che non deve però essere dimenticato.
Non è un caso se il museo guarda un borgo millenario sulla sponda sinistra del Trebbia e trova spazio nell'antico complesso agostiniano del 1486 sulla riva opposta del fiume che si raggiunge sul ponte storico eretto dai Doria, signori di Montebruno dal 1547 al XVIII secolo.
Tutta la parte superiore del convento agostiniano, annesso al santuario di Nostra Signora di Montebruno, scrigno di devozione e arte preziosa, ospita il museo contadino. Vi si arriva dal magnifico chiostro appena restaurato facendo riemergere anche gli antichi affreschi della sala capitolare e della cappella-refettorio dei monaci. Ma un cuore del museo batte anche più in profondità, dove svela persino un antico mulino, come vediamo con don Pietro Cazzulo, parroco di Montebruno e di tutta la Val Trebbia, che ha raccolto e tiene appassionatamente vive le testimonianze del mondo e delle tradizioni contadine.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
Macinare le farine per sfamarsi con pane, polenta, focacce, si accompagnava alla coltivazione della vite e per trasportare poi il vino prodotto si utilizzavano carri grandi e robusti, come questo.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
E fra il mulino e i carri in questo sotterraneo pieno di suggestioni ci sono attrezzi e macchine per la semina, le prime generazioni di trebbiatrici e macchine per confezionare le balle di fieno che don Pietro e i ragazzi della Val Trebbia hanno usato in modo originale anche per dare una mano ai villaggi delle missioni.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
All'inizio raccogliere oggetti per il museo è stato impegnativo racconta don Pietro, quasi subito però la voglia di tener salde le radici di vite e tradizioni, è diventata sentimento comune di tutta la vallata.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
E ora è il momento di risalire ed entrare dal chiostro negli spazi superiori del museo.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
Affascinano subito i meccanismi e gli ingranaggi di una macchina per rivestire con i cerchi di ferro le ruote agricole, dalle carriole ai carri più grandi.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
Mentre don Pietro racconta, spiega e descrive con una passione sconfinata arriviamo al laboratorio del ciabattino, un vero archivio della memoria.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia
Risalendo ancora incontriamo innumerevoli attrezzi e strumenti del mondo agricolo di un tempo, per arare, seminare, coltivare, falciare il fieno per il bestiame, tagliare la legna, la ricostruzione di una stalla, la stanza da letto. Una quotidianità contadina modellata sui ritmi e i riti delle stagioni che aveva il suo fulcro domestico nel calore della cucina.
DON PIETRO CAZZULLO, parroco della Val Trebbia